Martedì 12 aprile, alle 17, nell’ambito del ciclo di conferenze allo Stabat Mater dell’Archiginnasio per celebrare i nove secoli di vita del Comune di Bologna, Caterina Casanova dell’Università di Bologna dialoga con Alessandro Ambrosino e Federico Bolognesi sul tema “Il Settecento: tra progresso e immobilismo“.
In Europa il secolo XVIII si apre con una crisi dinastica che mette in discussione gli equilibri di forza i cui effetti si ripercuotono anche su Bologna, antemurale dello Stato pontificio direttamente minacciata dalle truppe austriache insediate a Comacchio. In un breve volgere di anni (1707-1709) si diffonde la voce di un tradimento dei Pepoli, feudatari imperiali il cui rinnovato splendore fa addirittura temere un loro progetto di staccare la città dallo Stato della Chiesa e di assumerne il potere con l’appoggio di Vienna.
Sebbene questo piano fosse basato solo sul malanimo dell’aristocrazia senatoria nei loro confronti, l’episodio è un sintomo di una più generale crisi del sistema patrizio e delle sue chiusure di ceto: dal terzo decennio del secolo a Bologna si delinea chiaramente una fascia intermedia tra i semplici cittadini e la nobiltà: un notabilato di medici, avvocati, mercanti, banchieri che costituiscono la parte più innovativa della società e che animano l’Istituto delle scienze e gli altri circoli di intellettuali aperti alle idee d’Oltralpe , i quali annoverano poche ma illustri esponenti anche fra le donne, prima fra tutte Laura Bassi Veratti. Lo stesso Luigi Ferdinando Marsili, di inesauribili curiosità e talenti, fu osteggiato dal patriziato bolognese e dai professori dello Studio, tanto da scegliere di dissociarsi dalla propria famiglia e dal proprio ceto per tutto quello che rappresentavano di retrivo e miope.
Il Settecento è anche il secolo del riformismo pontificio, prima di tutti di Benedetto XIV, uomo dottissimo e spigoloso, che a sua volta ebbe spesso parole sferzanti per i nobili e per il clero bolognesi e che invece favorì il notabilato colto, con il quale sentiva molte affinità e che incoraggiò in varie occasioni. Il riformismo economico, tuttavia, non dette i frutti sperati: anche quando Lambertini e i successori promossero imprese, come l’istituzione del porto franco di Ancona o la riorganizzazione in grandi appalti della riscossione delle imposte, mancarono riforme strutturali e quanto sembrò innovativo finì per arricchire finanzieri e speculatori, nuovi ricchi dalle ascese sociali spettacolari quanto effimere.
Nella seconda metà del secolo la quasi ventennale legazione del cardinale Ignazio Boncompagni sembrò tradurre in concreto le premesse fisiocratiche del suo catasto ma l’opposizione senatoria – ostile a qualsiasi imposta patrimoniale – lo frenò in questa impresa, già a buon punto, e che avrebbe dovuto coronare la l’esecuzione del piano per la bonifica della pianura.
All’arrivo dei francesi una parte dell’aristocrazia, fra cui Carlo Filippo Aldrovandi Marescotti, salutò con entusiasmo il crollo dell’antico regime. Ma furono soprattutto avvocati come Antonio Aldini (che aveva difeso con passione anche se senza successo Zamboni e de’ Rolandis nel 1794 per la loro tentata insurrezione) a costituire il nerbo della futura classe politica.